Psiche e Performance

Approfondimenti sull’interazione mente-corpo


Foto: Elizabeth Montgomery

“L'uomo è un mostro razionale e la psiche è l'arma più dotata di energia e libidine.”

- Poeta e pittore Giancarlo Modarelli

 

Voglio iniziare con questa frase questo nuovo articolo, perchè sicuramente si imbatterà in temi più profondi e delicati rispetto a quelli argomentati nei blog precedenti. In copertina un immagine simbolica ed emblematica che, non so a voi, ma a me piace da impazzire. La protagonista (Elizabeth Montgomery - foto estratta da un episodio di “frontier circus” del 1961) sgrana gli occhi davanti al lanciatore di coltelli: un mèlange tra rischio, paura, concentrazione, freddezza e follia. Emozioni che ci riempiono di adrenalina, ormone che migliora la reattività dell’organismo ed esalta la prestazione fisica...quanta vita in 1 secondo!

Parlare di psiche e performance in modo autentico e realistico è una scelta audace, sopratutto quando si è letteralmente circondati da banali messaggi social o slogan pubblicitari che semplificano e minimizzano quelle che sono le complessità della vita. Cosa possiamo fare per essere realisticamente e attivamente più consapevoli sul tema? Che ruolo gioca il benessere psicologico sulle nostre performance fisiche?

I più recenti ed aggiornati manuali medici affermano che la mente e il corpo interagiscono in misura tale da influire sulla salute globale di una persona. Imbattendomi nel sito MSD della Cleveland Clinc, ho trovato articoli molto interessanti a proposito; anche se ho rimarcato che certi discorsi restano ancora in sperimentazione e si sottolinea moltissimo la differenza di risposta da soggetto a soggetto (E’ spontaneo il confronto che sorge con la medicina Orientale: già da secoli sostiene quello che oggi viene in Occidente appena appena accennato).

 

“Per molto tempo si è discusso di come l’interazione tra mente e corpo sia in grado di influire sulla salute. Anche se le persone ne parlano come se fossero due entità distinte, mente e corpo sono invece così interconnessi che è difficile distinguere se gli effetti sono dell’una o dell’altro, come nei casi riportati di seguito.

  • Lo stress psico-sociale può inoltre peggiorare un’ampia varietà di patologie fisiche (...)

  • Lo stress e altri processi mentali possono inoltre aggravare o prolungare nel tempo i sintomi fisici. Ad esempio, i soggetti depressi o ansiosi possono soffrire maggiormente in caso di malattia o lesione rispetto alle persone che hanno uno stato mentale migliore.

  • Talvolta, lo stress può contribuire ai sintomi fisici perfino in assenza di una patologia fisica. Ad esempio, i bambini possono farsi venire il mal di pancia o la nausea perché in ansia riguardo all’andare a scuola, oppure è possibile che negli adulti sotto stress emotivo insorga un mal di testa.

  • I pensieri e le idee possono influenzare la progressione di una patologia.(...)

  • Una patologia fisica in generale può influenzare o determinare un problema mentale. A sua volta, la depressione può incidere negativamente sugli effetti di una patologia fisica.(...)

Quando i sintomi fisici sono imputabili allo stress o a fattori mentali, i medici possono avere difficoltà nell’individuare la causa. Per chiarire la situazione potrebbero essere richiesti molti esami diagnostici.”

- (testo tabella estratto dal sito manuale MSD versione per pazienti, Cleveland Clinic)

Al di là dei dati scientifici, per completare al meglio questo blog ho contattato Monica Facheris, specializzata in psicoterapia a orientamento psicoanalitico che si occupa di clinica dell’età evolutiva e dell’adulto, ponendole diverse domande-approfondimento rispetto la cura/la premura/la tutela e il rispetto del proprio fisico sotto più fronti.

Mi sono sempre chiesta: Che ruolo gioca la mente sul nostro corpo? Cosa scaturisce l’aspetto prestazionistico e l’ansia/stress performativa verso gli altri o soprattutto se stessi per un traguardo “x”? Esistono meccanismi pericolosi/meccanismi sani in merito? Da dove arriva la ricerca del rischio? Per il contorsionismo, da dove arriva questo desiderio d’oltrepassare i limiti?

Ecco il suo prezioso intervento:

Cara Alessandra, anzitutto vorrei iniziare a rispondere a queste domande ringraziandoti dell’invito a prendere parola rispetto al tema sportivo, aprendomi a una sfida, che è quella di articolare il pensiero psicoanalitico a un campo antico, sempre aperto, per l’essere umano. Raccolgo le tue suggestioni e cerco di utilizzarle come traccia per costruire un discorso. Partiamo anzitutto dall’idea che, analogamente alle pratiche artistiche, lo sport possiamo considerarlo appannaggio dell’essere umano. L’animale non pratica l’arte così come non agghinda il proprio corpo, non lo dipinge, non lo “segna” con tatuaggi o piercing. Il senso estetico non gli appartiene così come non gli appartiene dare una cornice regolamentare al gioco. Analogamente, seppur condivide con l’uomo l’esigenza del movimento, esso gli è necessario per sopravvivere: sussiste per lui un istinto orientato dalla dimensione fisiologica e biologica. Per l’essere umano, invece, la dimensione istintuale si piega, diciamo così, alle esigenze della civiltà. L’uomo perde la propria animalità per entrare nel campo del linguaggio, cioè un campo simbolico: ciò che per l’animale esiste nella sua spontanea immediatezza, per l’uomo entra in un registro di pratiche e leggi che fanno da cornice. Per esempio, ai gattini può piacere moltissimo correre dietro ad una pallina, ma non istituiscono un campionato di calcio! E così, vediamo che l’animale non sente l’esigenza di disciplinare il proprio corpo: esso è già in sé e per sé disciplinato! È questo uno dei grandi misteriosi aspetti della natura, i quali fanno arrivare ai nostri occhi la meraviglia di una pienezza, di una completezza che a noi esseri parlanti sfugge sempre. L’essere umano è piuttosto attraversato da pulsioni che possiamo considerare come il movimento fondamentale dell’uomo, ed è anzitutto interiore. Questi flussi pulsionali hanno a che fare con dimensioni profonde di noi che non seguono un programma determinato dalla genetica e che possono persino ostacolare la capacità di movimento, in certi casi. L’uomo è strutturalmente esposto alla défaillance, ai passi falsi, ai sintomi, per questo gli è necessaria la dimensione simbolica. Penso che questo sia un punto di partenza necessario da esplicitare.

Dunque, abbiamo tracciato un parallelismo tra arte e sport come pratiche simboliche, laddove la nostra umana struttura, anche fisica, è mancante, soggetta alle vicissitudini della storia soggettiva e dell’ambiente, anche sociale, in cui si cresce e si vive. Banalmente, non siamo tutti uguali e ognuno ha un potenziale del tutto singolare. Dunque, mancanza e potenziale vanno insieme, e penso che questo sia un altro punto importante del discorso che stiamo facendo qui insieme. La mancanza caratterizza l’essere umano in tutto e per tutto ed è ciò che lo rende “ricercatore”. L’uomo ricerca, crea, inventa in questo continuo confronto con la mancanza. In altre parole, perché vi sia creazione è necessario allearsi con la mancanza. Questo apre alla domanda che poni sul limite. Allearsi con la mancanza non significa negarla, non considerarla, anzi! Il nostro tempo invece è segnato da un discorso sociale predominante che mette la mancanza nel luogo del difetto, dell’inaccettabile, e al tempo stesso si tratta di un discorso che ci vorrebbe illudere che siamo tutti uguali, che tutti noi possiamo fare tutto. Si tratta di un discorso illusorio, effimero e pericoloso, oltre che omologante, perché schiaccia la complessità nell’unico imperativo della performance: cognitiva come fisica. È evidente che fare tutto non è possibile! E lo sport, a mio avviso, è un esempio molto lampante di tale impossibilità. In che senso? Se volessimo dare una macro-definizione dello sport, tenendo sempre a mente il parallelismo con l’arte, esso è un grandissimo esercizio del limite. Esercitare il limite, non semplicemente padroneggiarlo; inoltre, prima è necessario acquisire una certa tecnica, una maestranza, perché poi possa prodursi l’invenzione, il guizzo di genialità! Tutto questo richiede un tempo, anche di sedimentazione. È durante l’apprendimento che si entra sempre meglio in una sorta di dialogo con il proprio corpo, si impara gradualmente ad ascoltarlo, come può avvenire anche all’interno di un percorso di psicoterapia.

Dunque, contemplare il limite è la conditio sine qua non perché possa esservi sport. I grandi sportivi della storia testimoniano con la loro vita, la loro dedizione, ma anche con le loro cadute, il valore fondamentale del limite. Che significato ha la cura di sé in un mondo dove vige una ossessione per il corpo e per la performance? Il corpo assume il valore di oggetto nel discorso contemporaneo, come fosse una materia da scolpire; spesso viene ricordato soltanto che “fare movimento in generale fa bene”. Vorrei mettere in luce che fare attività fisica sostiene le facoltà razionali e cognitive e ci fa produrre endorfine e serotonine. Tale dimensione, al contempo, si intreccia con quella di cui parlavamo poco fa, ovvero con quelle pulsioni umane che non hanno a che fare con il raziocinio ma che seguono una loro logica profonda, più legata alla sfera emozionale e a quella affettiva, che è del tutto soggettiva, misteriosa. Tali dimensioni possono non andare nella stessa direzione! E il discorso contemporaneo vorrebbe tagliare fuori, misconoscere, questa altra dimensione misteriosa del nostro essere, per questo paradossalmente approcciarsi in tal modo alla vita sportiva può diventare nocivo. Lo sport, attraverso la riflessione che qui vi propongo, non è banalmente superamento dei propri limiti, ma parte proprio dall’avvicinamento ad essi, dalla loro contemplazione.

Vorrei dire ancora due parole in merito all’apprendimento, citato poco prima. Esso, se è autentico, passa sempre attraverso la relazione con l’Altro. Il maestro è una figura fondamentale, non è un semplice distributore di informazioni, nozioni, tecniche. Un maestro viene intercettato, scelto, perché ispira l’allievo per mezzo di un incontro fra singolarità. Non di meno il maestro orienta l’allievo nel lavoro con i propri limiti e segnando i tempi dell’apprendimento. Io penso avvenga questo anche nello sport, in particolare a certi livelli di agonismo: non si può far da soli e laddove si crede che così possa essere, non c’è durata. Concludo il nostro dialogo suggerendo un felice parallelismo tra la psicoterapia e lo sport perché, anzitutto, entrambi questi mondi si sorreggono sulla dimensione relazionale ed implica un esserci, una presenza che è anzitutto corporea, in uno spazio condiviso. In secondo luogo, hanno in comune il fatto che alle volte possono far emergere dei dolori, ma con la gradualità e la costanza, ponderate sulla singolarità di ciascuno, ne fanno emergere i punti di forza; e poi il “tener duro”, cioè durano nel tempo. Oggi come oggi, il vero rischio, nella sua accezione positiva, sembra piuttosto essere rappresentato dal poter stare in una relazione significativa, in un certo senso amare. Adorno in Minima Moralia (1954) sembra riassumere tutto così: “Il sentimento supera la prova decisiva quando supera sé stesso nella durata”

1 T. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino, 1994, p. 203

 

Dott.ssa Monica Facheris, psicologa e psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico. Lavora sia nel campo della clinica dell’adulto che della clinica dell’età evolutiva. Collabora con Associazioni sui territori di Bergamo e Milano ed è membro di Società Milanese di Psicoanalisi. Riceve privatamente nella Città di Milano.

spunti intellettuali che ci ha consigliato Monica:

- Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, 1980

- Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, B. Mondadori, 2012

- Documentario Netflix Il caso Alex Schwazer, Massimo Cappello

 

Grazie per la lettura , a presto con un nuovo articolo!

 
 
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